Lolita



Dalle bocche dei bambini al potere degli uomini
From the mouths of babes to the power of men

Faccio tutto di nuovo nuovo
I make it all new again

Tienimi la mano, tienimi la mano perché non riesco a toccare il suolo
Hold my hand, hold my hand 'cause I can't touch the ground

La giostra gira, gira e rigira
The carousel goes around, round and round

La dipendenza, l'attrito, ti brucia vivo
The addiction, the friction, it burns you alive

Così illegale che con questi occhi non si vede il male
So illegal, no evil is seen with these eyes

Non lo dirò se non lo farai e lo farò se vuoi
I won't tell if you won't and I will if you want

Niente è sacro, non importa se è sbagliato
Nothing is sacred, don't care if it's wrong
Sono la tua Lolita, La Femme Nikita
I'm your Lolita, La Femme Nikita

Quando saremo insieme, mi amerai per sempre
When we're together, you'll love me forever

Sei il mio possesso, sono la tua ossessione
You're my possession, I'm your obsession

Non dirmelo mai, mi amerai per sempre
Don't tell me never, you'll love me forever
Condannati fin dall'inizio, non possiamo restare separati
Doomed from the start, we can't stay apart

Ovunque mi giri sono intrappolato nel tuo cuore
Everywhere I turn I'm trapped in your heart

Non c'è scampo, i segreti ti tengono sveglio
There's no escape, secrets keep you awake

Non scappare, non salvare la situazione
No running away, no saving the day

Selvaggio ed emozionante ti sto distruggendo
Wild and exciting I'm breaking you down

Stai tornando, mi prenderò la tua corona
You're making a comeback, I'm taking your crown

Filastrocche, sto cantando i miei sogni
Nursery rhymes, I'm singing my dreams

Mi sono perso nel bosco e tu stai scoprendo i denti
I'm lost in the woods and you're baring your teeth
Sono la tua Lolita, La Femme Nikita
I'm your Lolita, La Femme Nikita

Quando saremo insieme, mi amerai per sempre
When we're together, you'll love me forever

Sei il mio possesso, sono la tua ossessione
You're my possession, I'm your obsession

Non dirmelo mai, mi amerai per sempre
Don't tell me never, you'll love me forever
Stai sempre vicino a me
Always stay close to me

Non pensare di andartene
Don't think of leaving

E prometto che manterrò il nostro segreto (segreto, segreto)
And I promise, I will keep our secret (secret, secret)
Sono la tua Lolita, La Femme Nikita
I'm your Lolita, La Femme Nikita

Quando saremo insieme, mi amerai per sempre
When we're together, you'll love me forever

Sei il mio possesso, sono la tua ossessione
You're my possession, I'm your obsession

Non dirmelo mai, mi amerai per sempre
Don't tell me never, you'll love me forever
Stai sempre vicino a me
Always stay close to me

Non pensare di andartene
Don't think of leaving

E prometto che manterrò il nostro segreto (segreto, segreto, segreto, segreto, segreto)
And I promise, I will keep our secret (secret, secret, secret, secret, secret)
Fonte: LyricFind
Compositori: Jessica Origliasso / Laura Pergolizzi / Lisa Origliasso / Tobias Gad
Testo di Lolita © BMG Rights Management, Kobalt Music Publishing Ltd.




Il finale mancante.

Lo-li-ta... là dove il cuore batte e il pensiero s'infrange. Lo-li-ta, ultimo mio pensiero che si scioglie e si infiamma in questo mio ultimo respiro terreno.
Io, Humbert Humbert o Arthur, o come più vi piace chiamarmi, adesso non ha più importanza, sento che la fine mi è vicina. Sento che le mie membra disfatte sono ormai lontane come il ricordo di una vita che a lungo non ho saputo vivere. In mezzo a questa vita tu, mia ninfetta che il sangue infetta, che il cuore brama, che l'anima lentamente uccide.
Tu che nemmeno il tempo ha saputo cancellare. Tu. Un musicale tu.
Buia è la stanza come la notte che non porta consiglio. Buia è la mia anima che si è nutrita di te, mia ninfetta, che ugual al ricordo mio primissimo non fosti mai. Come la mia Annabel non fosti mai anche se il tempo ti fu amico e potentissimo afrodisiaco fu il tuo corpo perfetto.
Ed eccoti qua, mia ninfetta. Vieni per veder le resta del tuo vecchio e malsano patrigno? O per ridere della mia morte come fosse una beatitudine che vale una vita non perdere?
Eccoti davanti a me come sei davvero.
Davanti a me vi è una ragazza sfatta, nulla a che vedere con la piccola e graziosa bionda ninfetta dodicenne. Dimostri molto di più della tua età, ma non sono le rughe, non sono i segni del tempo, ma semplicemente la conta delle avversità, la somma degli ostacoli che la vita ti ha imposto, prima fra tutti me, purtroppo. Nonostante tu sia incinta fumi ripetutamente, mastichi il chewing-gum a bocca aperta. Il tuo rossetto è di un rosso volgare, spalmato a chiazze senza cura. I tuoi capelli sfibrati, le tue mani corrose dai lavori più umili.
Seduta scomposta sopra questa branda di prigione mi vieni a trovare.
Ti accolgo nell'unica stanza che compone la mia "casa". Hai accettato questa ultima udienza, forse hai bisogno di soldi? Ma tu scrolli testa e mi sorridi. Di un sorriso stanco e slavato per i tuoi diciassette anni. Mi parli di te, mi parli della tua Dolores Haze, mi parli di quell’arcipelago di case basse, coperte perennemente dalla neve che copre fintamente miseria, sporcizia e povertà. Là dove sei andata a vivere con quello che tu chiami marito. Stringi le braccia in cerca di calore. Hai freddo, mi dici che hai sempre freddo, e nulla riesce più a scaldarti. Vorrei ripropormi, invece esordisco così al tuo lungo cinguettare sgarulo di sempre.
«Allora, Lolita, ne è passato di tempo»
«In Alaska è sempre inverno. L’Alaska gela le mani, e iberna il cuore e i ricordi» ripeti ad occhi bassi.
Esito e chiedo: «Ci pensi ancora a me?» Fremo per la risposta ma pare che il tempo si fermi dinanzi al tuo fumar di sigaretta.
Poi mi dici con voce piatta: «Penso che senza quei tredicimila dollari non mi sarei rifatta una vita. Mio marito fa il manovale e abbiamo sempre bisogno di soldi»
«Sai, io ti avevo dato quel denaro a patto che mi rivelassi il nome di Quilty per poi vendicarmi. L’uomo che era stato la causa della nostra separazione, di cui tu ti eri infatuata sin dai tempi in cui io e tua madre abbiamo avuto una relazione» dico timoroso.
Tu mi guardi senza cambiare espressione e rispondi: «Sapevo che volevi conoscere quel nome per ucciderlo, ma ripeto, io avevo maledettamente bisogno di soldi. E poi Quilty era un poco di buono, mi aveva illusa, ripeteva ogni volta che sarei diventata una star»
Rimango turbato… chiedo: «Ma non hai rimorsi?»
«Assolutamente no! Cosa c’entro io? Io ho solo pensato ai soldi, del resto non me ne frega niente e non mi sento responsabile»
Momento di silenzio fra noi...
«Sai, non ho molto da vivere senza di te» Lei non dubita delle mie parole ma dice lo stesso: «Non ho nulla di interessante da aggiungere alle tue parole. Ero semplicemente una dodicenne che si comportava da dodicenne. Dodici anni, capito? Tu un vecchio professore squallido e patetico, ossessionato dalle tue manie»
Mi angoscia sentir parlare la mia Lolita così di me. Eppure, l’ho sempre saputo...
Continui cieca al mio sguardo triste dicendo: «Avevi una predilezione sensuale per le ragazze piuttosto giovani. Credo che nonostante la storia e l'epilogo non mi hai mai amato, mai capita, ma solo adorata come un idolo, una statuetta religiosa che corrispondeva esattamente alla tua fede. Eri malato, avevi un bisogno incessante di guardarmi…» Sbuffa mentre io taccio.
«Ne ho avuto sempre la sensazione, perfino nei momenti più intimi, tu rimanevi legato al suo feticcio ideale, alla ninfetta bambina che popolava i tuoi sogni, e vivevi i nostri rapporti con distacco, come se, invece di fare l’amore, ti masturbassi continuamente. Facevi l’amore con la tua ossessione, io ero solo la rappresentazione grafica, niente di più!»
Le lacrime ormai scorrono ed io sono ai suoi piedi, più pallido e morente che mai...
«Mi hai mai amato?» Ma già sapevo la risposta che avevi appostato fra i tuoi corrosi denti. Chino la testa come stessi pregando...
«No! Eri goffo, squallido, portavi abiti fuori moda, vecchi! E poi eri prigioniero della tua propria mente, non distinguevi il vero dal falso, le minacce reali da quelle suggerite dalla tua paranoia, in termini di possesso e gelosia»
«Mi hai mai odiato?» chiedo d'impulso sollevando lo sguardo sul tuo viso pungente.
«No, perché non ti ho mai amato. Nutrivo nei tuoi confronti una forte repulsione, ma ora non ti porto rancore, in fin dei conti mi hai spezzato la vita, non certo il cuore!» Lei, giudicata l’emblema di un’adolescenza perversa. Mi guarda e scrolla la testa per l'ennesima volta. Forse prova pena. Forse la proverei anch'io per uno come me.
«Ero soltanto curiosa di sperimentare quel gioco pericoloso. Ma ti assicuro che a quel tempo non ero assolutamente cosciente di ciò che potevo scatenare, non ne conoscevo i contorni, tanto meno i risvolti sessuali. Del resto quando me ne sono accorta non ho esitato un attimo a liberarmi di quella presenza obbiettivamente morbosa che eri tu»
Si ferma e mi fissa, come se stesse andando indietro nel tempo alla ricerca di qualche dettaglio.
Poi aggiunge gelida: «È indubbio che la considerazione di un uomo maturo, seppure squallido, mi stimolava a marcare atteggiamenti maliziosi che altri giudicavano soltanto infantili. Mi piaceva la parte della seduttrice che ammaliava per il gusto di farlo senza per altro arrivare ad alcuna conclusione»
«Ma tu non eri una sprovveduta ragazzina in balia degli eventi, Lo!» grido io.
Per un attimo perdo la pazienza e la testa mi scoppia. Ma lei, gelida, mi fissa e poi risponde sicura di sé: «A volte la naturalezza porta morte e rovina. Tu t'incantavi nell'osservarmi, adoravi ogni piccolo dettaglio del mio aspetto e della mia persona fino al punto di celebrare tutti i miei difetti per il solo motivo che appartenevano a me»
Guardandola così da vicino, le dico che assomiglia a sua madre Charlotte. Ma lei sputa per terra e mi guarda con disprezzo ed esclama: «Poverina! Ha sposato un uomo che amava sua figlia. Questo potrebbe spiegare tutto. Povera mamma! Solo in seguito si è accorta che era solo uno strumento per arrivare a me. Negli ultimi tempi era diventata nevrotica, quasi depressa, non accettava il passare degli anni e soprattutto non capiva come sua figlia, una bimbetta di dodici anni, potesse attirare a sé le attenzioni maniacali di un uomo maturo! Perché mai di fronte a te avrebbe potuto competere con me. Io ero l’oggetto di venerazione, io il desiderio sessuale in persona, io vergine e prostituta insieme. Tutto ciò che lei mai avrebbe potuto rappresentare negli occhi di quell'uomo perverso che eri tu»
Cerco le sue bianche mani ormai rovinate ma lei non me le fa toccare. Continua come se parlasse a sé stessa.
«Mia madre era morta e tu avevi ottenuto quello che avevi sempre desiderato. Ero tua, completamente tua, almeno fisicamente. Nonostante ciò ti comportavi da ossessionato, eri assillato dal terrore di perdermi. Corroso dalla gelosia, vedevi nemici dappertutto. Oggi saresti considerato soltanto un malato, affetto dalla malattia sfibrante della passione che ti rendeva succube di te stesso, di me e dei tuoi sensi. Clare Quilty aveva il carisma dell’artista ed ha avuto terreno facile. Era semplicemente un genio dalle mille maschere, ma non me ne accorsi subito. Rappresentava per me il futuro, la voglia di arrivare, le luci della ribalta, il sogno di una ragazzina. Al tempo non potevo certo intuire che somigliasse in tutto e per tutto a te. Ma ha avuto il merito di farmi fuggire da te» Smette per un attimo di masticare il chewing-gum. Vai così, piccola ninfa, colpisci ancora con le tue parole taglienti questo povero vecchio.
«Humbert!» Lei svanisce davanti a me ed io chiudo gli occhi incerto fin quando riaprendoli non la vedo... Come allora... piccola Ninfa...
«…posso ancora parlarti da qui all'Alaska. Sii fedele al tuo Dick. Non lasciarti toccare dagli altri. Non parlare con gli sconosciuti. Spero che vorrai bene al tuo bambino. Spero che sarà un maschio. Spero che quel tuo marito ti tratti sempre bene, altrimenti il mio spettro si avventerà su di lui come fumo nero, come un gigante forsennato, e lo dilanierà nervo per nervo. E non commuoverti per la sorte di C.Q. Si doveva scegliere fra lui e H.H. e si doveva lasciar esistere H.H. per un altro paio di mesi almeno, in modo che egli potesse farti vivere nella coscienza delle generazioni successive. Penso agli uri e agli angeli, al segreto dei pigmenti duraturi, ai sonetti profetici, al rifugio dell’arte. E questa è la sola immortalità che tu e io possiamo condividere, mia Lolita» Questo lo scrissi io...
Ma tu sorridi e mi accarezzi il viso, senza repulsione, son sicuro, e mi dici cinguettando: «Ormai è troppo tardi. Quando ti sei accorto di amarmi come donna anziché come ninfetta, le nostre vite ormai erano sfatte e svanite. Non c’era più speranza. Vedevo la morte nei tuoi occhi per quell'ossessione che non avevi saputo consumare fino in fondo. Non si può recuperare quando gli eventi hanno ormai scavato una voragine»
«Posso dire che vengo sconfitto quando la mia perversione si trasforma in amore» dico.
«Dio mio! Troppo cinica come interpretazione. Tu eri soltanto una persona malata, Lolita o qualsiasi altra ragazzina non avrebbe cambiato, la tua vita destinata era comunque al fallimento»
Non sorridi più mentre lo dici e la tua mano è fredda come la morte...
«Avrei voluto diventare un’attrice, non ti nascondo che questo anonimato mi pesa. Giro tra la gente illudendomi che qualcuno possa riconoscere in me quella Lolita. Ma come vedi (mi indica il suo seno abbondante) poco è rimasto di quella ninfetta»
Sorrido per la prima volta e mi sfugge un: «E quindi ti son forse mancato?» Algida è la sua voce e trasparente mi appare la sua pelle.
«Mi manca la luce che mi davi. Mi mancano i sogni di quell'età, per cui non posso non pensare a Lolita quando mi rendo conto di essere rimasta una semplice e anonima Dolores»
Lo, si dissolve nell'aria, ed io son sdraiato, contemplando la mia buia stanza, stanza in cui prima c'era il sole e adesso non c'è più.
Prima c'era Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente. Lo la mattina, ritta nel tuo metro e quarantasette con un calzino solo. Eri Lola in pantaloni. Eri Dolly a scuola. Eri Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia eri sempre Lolita. Adesso c'è solo una anonima Dolores.
Adesso sento freddo pure io. Il buio scende e mi afferra le gambe mentre il cuore lentamente cessa di battere per sempre. Non prima di un piccolo sussulto. Non prima di pronunciare quel mio amatissimo nome affinché mi accompagni nello sceol più profondo, sciogliendo fra le mie labbra vita, amore, passione, per la mia Lo-li-ta!
Amen e amen, signori e signore.




Il mistero sulla vera Lolita

Cercando un video per il mio racconto mi sono imbattuta in questo articolo di ELLE.
https://www.elle.com/it/magazine/libri/a39564814/storia-vera-lolita-nabokov/
Copio e incollo.

C’è un libro che forse più di tutti segna il passaggio tra le letture infantili e quelle adulte. Parliamo di Lolita, il romanzo scritto da Vladimir Nabokov. Non troviamo più l’amore innocente di Piccole Donne, nemmeno quello romantico raccontato dalle sorelle Brontë, a farsi largo tra le pagine del libro che ha sconvolto la morale del ventesimo secolo ci sono la passione e la morbosità. Ma Lolita è una storia dalle mille sfaccettature, e soprattutto è tratta da una vicenda vera, spesso sconosciuta.

Nel romanzo il professor Humbert si innamora di una ragazzina americana non ancora maggiorenne, in lei rivede un amore perduto di gioventù. Lolita, il suo volto e il suo corpo, rappresentano un sogno ritrovato, ne nasce una relazione che verrà scandita dalle soste nei motel di mezza America. “Nabokov era rimasto affascinato dall'idea dell'ossessione sessuale di un uomo di mezza età per una ragazza minorenne, e la trama si ripresenta in molti dei suoi primi lavori”, racconta il Sunday Magazine. “Stava lavorando a una bozza di Lolita quando il caso Horner fece notizia”.

Per comprendere le trame della vicenda (e i successivi risvolti nel romanzo) è necessario affidarsi a un altro testo. La scrittrice canadese Sarah Weinman ha pubblicato una lunga inchiesta dedicata al caso di rapimento che ispirò l’autore russo-americano. La vera Lolita, Il rapimento di Sally Horner e il romanzo che ha scandalizzato il mondo (Knopf Canada), ripercorre la storia di Sally Horner, la undicenne rapita da Frank La Salle.

Sally Horner era figlia di una vedova, una studentessa modello di Camden, nel New Jersey. Nel 1948, cercando di impressionare le coetanee popolari della scuola, rubò un taccuino dallo scaffale di un negozio. Frank La Salle, fingendosi l’agente dell’FBI Frank Warren, mise sotto sorveglianza la ragazzina e la caricò su un autobus diretto ad Atlantic City. Proprio come nella trama di Lolita iniziò un viaggio attraverso il centro degli Stati Uniti.

Di giorno La Salle indossava le vesti di padre della vittima, di notte abusava di Sally Horner. Dopo ventuno mesi di stupri, la giovane Horner riuscì finalmente a confessarsi con una vicina, Ruth Janisch, trovando il coraggio di telefonare alla famiglia. L'FBI recuperò la giovane da un parcheggio per roulotte, nel sud della California. La Salle venne arrestato e condannato all’ergastolo. Nel 1952, due anni dopo il salvataggio, Sally Horner rimase uccisa in un incidente d'auto.

Vladimir Nabokov è sempre stato notoriamente riservato sul suo lavoro, e non ha mai ammesso pubblicamente di aver tratto ispirazione dal caso Horne. Secondo Sarah Weinman le somiglianze sono però molto evidenti: “Stavo cercando connessioni, ma ero comunque stupita da tutti i diversi modi in cui la vita reale e la narrativa si intrecciavano", ha raccontato al giornalista Michael Enright.

Ma come una vera indagine nell’indagine, è necessario aggiungere un ultimo tassello. La giornalista Katy Waldman, con una recensione pubblicata sul The New Yorker, ha stroncato il libro di Weinman. Secondo Waldman, la scrittrice canadese ha commesso l’errore di descrivere La Salle sovrapponendolo alle figure di Humbert-Nabokov.

“La ricerca di Weinman di un vero essere umano da porre al centro della vicenda sembra comprensibile, Nabokov è stato a lungo criticato per aver ricamato frasi ammalianti sulla bruttezza degli abusi sessuali, e Lolita non è invecchiata bene nell'era #MeToo”, ha spiegato la giornalista.

L’inchiesta è interessante, ma non al punto da trasformarla in una pubblicazione: “Il rapporto tra la storia personale di Nabokov e il suo tema artistico rimane oscuro - conclude - Creativamente ha avuto molti input: Lewis Carroll, Edgar Allan Poe. L'autore avrebbe potuto benissimo estrarre la trama scheletrica di Lolita da una storia in lingua tedesca del 1916, di Heinz von Lichberg”.

Colpo di scena finale, volete un nuovo libro da leggere? Journal de L (Diario di L), scritto da Christophe Tison. L’autore si immagina un diario nella quale Dolores Haze (detta Lolita) si racconta, recuperando la dimensione di personaggio a tutto tondo. Lolita parla, e questa volta è lei a raccontare la sua versione della storia.



Audiolibro

Lolita - Nabokov


Audiopoesia


Ricercata: Dolores Haze. Non è più qui.
Labbra scarlatte. Capigliatura: bruna.
Età: cinquemilatrecento dì.
Professione: “stellina” o nessuna.
Dove, Dolores, ti sei rintanata?
Perché ti nascondi? Ritorna!

(Borbotto annebbiato, cammino accecato,
son chiuso in gabbia, ha detto lo storno).

Dove, Dolores, dove scorrazzi?
E di che marca è il tappeto volante?
È per la Cougar che andate pazzi?
In che parcheggio sbaciucchi il tuo amante?
Chi è oggi il tuo eroe, Dolores?
Un superman vestito d’azzurro?

Le baie, le palme, le notti d’amore,
i bar, i barmen, del mare il sussurro…
Quel juke-box, Dolores, mi torce i budelli.

A chi, mentre balli, ti avvinghi?
(In jeans tutti e due, magliette a brandelli,
ed io che spiandovi, ringhio piangendo).

Io muoio, Lolita, io sono perduto.
Di odio e rimorsi morente
sollevo di nuovo il pugno irsuto,
di nuovo ti odo piangente.

Ricercata: Dolores Haze.
Grigio-sogno lo sguardo, e sicuro.
Novanta libbre in tutto il suo peso.
Sessanta pollici la sua statura.
La mia Melmoth, Dolly, è vecchia, spossata.
L’ultima tappa è lunga e dura.
Marcirò tra l’erbaccia in un fossato –
e tutto il resto è letteratura.



Vladimir Nabokov
La prefazione alla sceneggiatura originale.

E' riportata qui la prefazione di Vladimir Nabokov alla pubblicazione italiana della sceneggiatura che ha scritto adattando il suo romanzo. Kubrick utilizzerà ben poco di questa versione ma lascerà ugualmente a Nabokov il credit di unico autore dello script, che gli frutterà una nomination agli Oscar. Una mossa che può essere interpretata come un segno di riconoscimento e ammirazione per lo scrittore, ma anche come misura cautelativa per allontanare potenziali critiche dovute all'altissimo livello letterario del romanzo.

 
Lolita: Una Sceneggiatura
di Vladimir Nabokov
Verso la fine di luglio del 1959 (il mio diario tascabile non riferisce la data precisa), in Arizona, dove io e mia moglie eravamo a caccia di farfalle, con quartier generale a Forest Houses (tra Flagstaff e Sedona), ricevetti via Irving Lazar, che mi rappresentava, un messaggio da parte dei Sig.ri Harris & Kubrick. Avevano acquistato i diritti cinematografici di Lolita nel 1958, e mi chiedevano ora di raggiungerli a Hollywood per scriverne la sceneggiatura. L'onorario offerto era ragguardevole, ma l'idea di rimanipolare un mio romanzo suscitava in me soltanto disgusto. Una certa stasi nelle attività dei lepidotteri indigeni suggeriva, comunque, l'opportunità di salire in macchina e proseguire in direzione della West Coast. Dopo un incontro a Beverly Hills (durante il quale mi fu detto che, al fine di tranquillizzare il censore, non ci sarebbe stata male l'aggiunta di una scena con pudiche allusioni a un Humbert fin dall'inizio segretamente sposato con Lolita) seguito da una settimana di sterili meditazioni in riva al lago Tahoe (dove una malaugurata sovrabbondanza di manzanita impediva la presenza di buone farfalle) decisi di non intraprendere il lavoro e partii per l'Europa.

Soggiornammo a Parigi, Londra, Roma, Taormina, Genova e Lugano, dove arrivammo per una permanenza di una settimana il 9 dicembre (Grand Hotel, stanze 317-318, dice la mia agenda del 1959, che si fa ora più loquace). Avevo smesso ormai da tempo di pensare al film, quando ebbi all'improvviso l'esperienza di un'illuminazioncella notturna, di origine diabolica forse, ma inusitatamente incisiva nella sua vivida perentorietà, e percepii chiaramente un'allettante via di affrontare una versione cinematografica di Lolita. Mi pentivo di aver dovuto riflutare l'offerta, e andavo vanamente rimuginando brani di dialogo onirico, quando per magia mi arrivò un telegramma da Hollywood, che mi esortava a rivedere la mia primitiva decisione, promettendomi più mano libera.

Passammo il resto dell'inverno a Milano, a San Remo e a Mentone, e giovedì 18 febbraio 1960 partimmo per Parigi (2 singole Mentone-Parigi, letti 6 e 8, carrozza 9, partenza 19.15, arrivo 8.55, informazioni, queste e altre, che vengono riportate non solo per gusto mnemonico, ma anche perché non ho cuore di abbandonarle, neglette e inutilizzate). Il primo tratto del lungo viaggio verso Los Angeles cominciò con una gag piuttosto infausta: quell'accidenti di vagone-letto si fermò prima di arrivare al marciapiede, tra le mimose e i cipressi, nell'eleganza acquarellosa di una serata in Costa Azzurra, e io, mia moglie e un facchino ormai quasi fuori di sé dovemmo sciamare da livello terra a livello treno per poterci imbarcare.

La sera dopo eravamo a Le Havre, sull' United States. Avevamo prenotato una cabina (la 61) sul ponte superiore ma fummo trasferiti senza sovrapprezzo, con omaggio di frutta e whiskey, in una squisita suite (la 65), offerta da una squisita direzione - una delle tante carinerie riservate agli scrittori americani. Sabato 27 febbraio, dopo quattro intense giornate newyorkesi, partimmo per Chicago (ore 22.00, carrozza 551, scompartimenti-letto en suite E-F, appunti ameni, innocenti minuzie di una volta!) e la sera dopo salimmo a bordo del Super Chief, sul quale la puntata seguente della nostra serie di scompartimenti-letto ci accolse con una doppia esplosione di musica, laonde ci precipitammo frenetici a bloccare, soffocare, eliminare, annientare l'odioso ordigno e, non trovandone l'interruttore, fummo costretti a invocare aiuto (beninteso, la situazione è di gran lunga peggiore sui treni sovietici, dove vige il divieto assoluto di spegnere la muzakovitch).

Il 1° marzo, io e Kubrick, negli stabilimenti di Universal City, nel corso di un'amabile tenzone di suggerimenti e controsuggerimenti, discutemmo su come cinematizzare il romanzo. Lui accettò tutti i miei punti d'importanza vitale, io accettai, dei suoi, i meno significativi. La mattina dopo, seduto su una panchina sotto un Pyrospodia di un bel color giallo-verde acceso, in un giardino pubblico non lontano dal Beverly Hills Hotel (dove Irving Lazar aveva preso un cottage per noi) mi ero già messo d'impegno a elaborare le battute e le azioni che mi giravano per la testa. Il 9 marzo, Kubrick ci presentò Tuesday Weld (una leggiadra attrice giovane, ma non il mio ideale di Lolita). Il 10 marzo affittammo dal defunto John Francis Fay una gradevole villa (2088 Mandeville Canyon Road). L'11 marzo, Kubrick mi inviò per corriere un sommario profilo delle scene su cui io e lui ci eravamo accordati: comprendevano la Prima Parte del romanzo. A quel punto il comportamento di Kubrick mi aveva fatto capire che egli era più ben disposto verso i miei capricci che non verso quelli della censura.

Nei mesi seguenti i nostri incontri furono piuttosto rari - più o meno uno ogni due settimane, da me o da lui; i profili cessarono del tutto, critiche e consigli si fecero sempre più succinti, e per la metà dell'estate non ero più sicuro se Kubrick stesse serenamente accettando qualunque cosa io facessi o silenziosamente bocciando il tutto.

Lavoravo con gusto, componendo mentalmente ogni mattina dalle otto a mezzogiorno mentre andavo a caccia di farfalle per colline afose, che, a parte qualche esemplare particolarmente irrequieto di una rara Ninfa di Bosco, non elargivano alcunché di interessante, ma brulicavano per contro di serpenti a sonagli, le cui isteriche esibizioni tra la sterpaglia o nel mezzo di un sentiero facevano un effetto più comico che allarmante. Dopo una tranquilla colazione, approntata dalla cuoca tedesca in dotazione alla casa, passavo un altro periodo di quattro ore su una sedia a sdraio, tra rose e mimi, armato di schede a righe e matita Blackwing, a copiare e ricopiare, cancellare e riscrivere le scene immaginate durante il mattino.

Di natura, non sono autore drammatico; e neanche uno sceneggiatore praticone; ma se mi fossi dato al palcoscenico o allo schermo tanto quanto mi sono dato al genere di scrittura che sconta il suo trionfale ergastolo dentro la copertina di un libro, avrei propugnato e messo in opera un regime di totale tirannia, dirigendo io stesso il film o la commedia, scegliendo scenografia e costumi, terrorizzando gli attori, confondendomi tra loro in ruoli secondari di ospite o di spettro, suggerendo loro la parte: in una parola, permeando l'intero spettacolo del volere e dell'arte di un individuo unico - poiché non c'è niente al mondo che mi sia più odioso dell'attività di gruppo, quel bagno collettivo dove villosi e viscidi fraternizzano, in un moltiplicarsi di mediocrità. Tutto ciò che potevo permettermi, nel caso, era di stabilire il primato delle parole sull'azione, limitando così al massimo le interferenze della committenza e del cast. Perseverai nell'assunto, fino a rendermi tollerabile il ritmo dei dialoghi e a controllare il flusso del film da motel a motel, da miraggio a miraggio, da incubo a incubo. Già molto prima, a Lugano, avevo abbozzato la sequenza dell'Albergo dei Cacciatori Incantati, ma ora il meccanismo preciso atto a rendere, attraverso un gioco trasparente di effetti sonori e di inquadrature particolari, sia una mattinata come tante altre, sia un momento cruciale della vita di un pervertito disperato e di una misera bimba, si rivelava oltremodo difficile da regolare. Poche scene qua e là (per esempio la casa fantasma di McCoo, le tre ninfe sul bordo della piscina, o Diana Fowler quando rimette in moto il ciclo fatale che era già stato di Charlotte Haze) sono basate su materiale inedito che avevo conservato dopo aver distrutto il manoscritto del mio romanzo: operazione, questa, di cui mi pento meno che del fatto di aver eliminato quei brani.

Alla fine di giugno, dopo aver esaurito più di mille schede, ne feci fare un dattiloscritto e inviai a Kubrick le quattrocento pagine che ne erano risultate; quindi, bisognoso di riposo, fui portato da mia moglie, in un'Impala a noleggio, nella contea di Inyo, per un breve soggiorno al Glacier Lodge, sul Big Pine Creek, dove, nelle montagne circostanti, catturammo Inyo Blu e altre creaturine. Tornati a Mandeville Canyon, ricevemmo una visita di Kubrick, il quale mi disse che la sceneggiatura era di gran lunga troppo macchinosa, che conteneva troppi episodi superflui, e che ci sarebbe voluto un film di sette ore. Mi richiedeva alcuni tagli e altri cambiamenti, che in effetti apportai, oltre a escogitare nuove sequenze e situazioni, preparando un copione più breve che gli pervenne in settembre e che lui definì buono. L'ultimo tratto di questo percorso durato sei mesi fu il più impervio, ma anche il più entusiasmante. Dieci anni dopo, però, ho riletto la mia sceneggiatura e ho reinserito alcune scene.

L'ultimo incontro con Kubrick deve essere avvenuto il 25 settembre 1960, nella sua casa di Beverly Hills: quel giorno mi mostrò alcune foto di Sue Lyon, pudibonda ninfetta sui quattordici, che a detta di Kubrick poteva essere facilmente resa piu giovane e sciatta nel ruolo di Lolita per il quale era già stata scritturata. Nell'insieme, mi sentivo abbastanza contento di come erano andate le cose, quando nel pomeriggio del 12 ottobre io e mia moglie salimmo sul Super Chief (scompartimenti letto E-F, carrozza 181) per Chicago, dove cambiammo per il Twentieth Century (scompartimenti letto J-K, carrozza 261), raggiungendo New York alle 8.30 del 15 ottobre. Nel corso di quel meraviglioso viaggio - l'annotazione seguente può emozionare solo gli extrasensorialisti più accaniti - feci un sogno (13 ottobre) in cui vidi scritto: "Hanno detto alla radio che lei è spontanea come Sarah Footer." Non ho mai conosciuto nessuno che si chiamasse così.

Il compiacimento è uno stato d'animo che è autentico solo se visto in retrospettiva: lo si deve infrangere prima di poterlo constatare. Il mio avrebbe resistito un anno e mezzo. Fin già dal 28 ottobre (New York, Hampshire House, stanza 503) trovo nel mio libriccino, annotato a matita, il seguente progetto: "Un romanzo, una vita, un amore - solo il minuzioso commento a un breve poemetto che si dipana man mano." Appena la Queen Elizabeth ("Comprare filo interdentale, nuovo pince-nez, Bonamina, controllare con direttore bagagliaio baulone nero su molo prima dell'imbarco, ponte A, cabina 71") ci depositò a Cherbourg il 7 novembre, il "breve poemetto" cominciò a diventare piuttosto lungo. Quattro giorni dopo, al Principe e Savoia di Milano, e poi per tutto il resto dell'inverno, in un appartamento affittato a Nizza (57 Promenade des Anglais) e quindi nel Ticino, nel Valais e nel Vaud (10 ottobre 1961, trasferiti al Montreux Palace) rimasi immerso in Fuoco pallido che completai il 4 dicembre 1961. La lepidotterologia, il lavoro sulle bozze di quel mammut del mio Evgenij Onegin, e la revisione di una traduzione difficile (Il dono) si presero la primavera del 1962, passata per lo più a Montreux, cosicché (a parte il fatto che nessuno insisteva a ciò che io andassi a Elstree) le riprese del film di Lolita, in Inghilterra, iniziarono e si conclusero ben oltre il velo delle mie vanità.

Il 31 maggio 1962 (quasi ventidue anni dopo che eravamo emigrati da St. Nazaire, a bordo dello Champlain), la Queen Elizabeth ci portò a New York per la prima di Lolita. La nostra cabina (ponte principale, cabina 95) era altrettanto comoda che quella dello Champlain nel 1940, e inoltre, a un cocktail-party offerto dal commissano di bordo (o dal chirurgo di bordo, i miei scarabocchi sono illeggibili), questi mi apostrofò dicendomi: "Ora lei, da uomo d'affari americano, troverà questa storia molto divertente" (storia non riportata). Il 6 giugno rivisitai quel luogo consueto, il dipartimento di entomologia del Museo Americano di Stona Naturale, dove depositai gli esemplari di Callophrys avis di Chapman che avevo catturato in aprile tra Nizza e Grasse, sotto i corbezzoli. La prima ebbe luogo il 13 giugno (Loew's State, Broadway e Quarantacinquesima, E 2 + 4 platea, "posti orribili" dice senza peli sulla lingua la mia agenda). La folla dava la posta alle limousine che approdavano una a una, e dentro una di quelle c'ero anch'io, entusiasta e innocente come i fans che ne sbirciavano l'interno sperando di intravedere James Mason ma trovandoci solo il placido profilo di una controfigura di Hitchcock. Qualche giorno prima, a una proiezione privata, avevo scoperto che Kubrick era un grande regista, che Lolita era un film di prima qualità con attori magnifici, e che della mia sceneggiatura erano stati usati solo brandelli sparsi. Le modifiche, il travisamento delle mie trovate migliori, l'omissione di intere scene, l'aggiunta di altre, e ogni genere di cambiamenti ulteriori, non erano forse sufficienti a far cancellare il mio nome dai titoli di testa ma di certo rendevano il film tanto infedele alla sceneggiatura originale quanto lo sono certe traduzioni di Rimbaud e Pasternak fatte da un poeta americano.

Mi affretto ad aggiungere che queste ultime osservazioni non vanno assolutamente interpretate quale riflesso di un tardivo rancore, di uno stridulo biasimo nei confronti dell'approccio creativo di Kubrick. Nel travasare Lolita su schermo sonoro, lui vedeva il mio romanzo in un modo, io in un altro: tutto qui, né si può negare che un'assoluta fedeltà può anche essere l'ideale per un autore, ma per il produttore può risultare rovinosa.

La mia prima reazione al film fu un misto di irritazione, rammarico, e restio godimento. Più d'un'intrusione (quale la macabra sequenza del ping-pong o l'estatica sorsata di scotch nella vasca da bagno) mi parve azzeccata e spiritosa. Penose, però, altre (quali il crollo della brandina pieghevole o i fronzoli dell'arzigogolata camicia da notte della signorina Lyon). Le sequenze, per lo più, non erano certo migliori di quelle da me pensate con tanta cura per Kubrick, e mi pentii amaramente del tempo perso, pur ammirando la saldezza di Kubrick, nel sopportare per sei mesi l'evoluzione e la somministrazione di un prodotto inutile.

Ma mi sbagliavo. Rammarico e irritazione si placarono presto al ricordo dell'ispirazione tra le colline, la sedia a sdraio sotto la jacaranda, la spinta interiore, la luce, senza le quali non avrei portato a termine il compito. Mi dissi che dopotutto nulla era andato perso, che la mia sceneggiatura restava intatta nella sua custodia e che un giorno l'avrei potuta pubblicare: non come meschina confutazione di un film dovizioso ma semplicemente come vivace variante di un vecchio romanzo.

Montreux
Dicembre 1973

Prefazione di Vladimir Nabokov
Lolita: Una Sceneggiatura, Bompiani, 1997








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