Virtual Geisha

 Dalla parte dell'altra lei.



Divengo! Devo Divenire? Io davvero non lo so.

So per certo, chi sono. Sono io, sono Me. Ma la mia vera Me, forse deve ancora divenire.

Vivermi, come descrivermi, non è per i deboli di cuore. Non è facile affatto. Ma oggi ci voglio provare, voglio incidermi con questa penna virtuale e far uscire un po' di me. Poi quello che verrà fuori riguardo al mio me, vorrei portarlo di fronte a coloro che sanno e tutto giudicano dicendo loro: “Eccomi! Etichettami come fossi una provetta!” e non lo dico per dire, vorrei sul serio dare senso alla mia anima.

Di me so questo: mi sento molto una lumaca, per azioni e per sentimenti. Una lumaca è serena e tranquilla ma ha anche tanta paura! Se così non si sentisse, non porterebbe la sua casa, un guscio, sulla schiena trascinandosela ovunque. Ho molto paura del futuro e vivo sempre sull'essenzialità del presente. Non sono fedele, sembra brutto da scrivere ma io vivo l'attimo e comunque non ho mai conosciuto chi mi desse l'eterno. Quando prometti che ci sarai sempre, devi esserci, sta male non mantenere le promesse. Ecco io quelle promesse non le farò mai. Quindi mi dispongo a essere fidanzata a giorni alterni. Crederò quando vi sarà da crederci e dimenticherò quando dovrò farlo. Sono libera e la vera libertà è l'incontaminata concezione che l'amore sia una catena, un'illusione. Cresciamo già indottrinate ad attendere il principe azzurro e poi ci chiediamo perché la nostra vita vada a rotoli. Cresciamo predisposte su di un modello: prima amore, poi matrimonio e infine maternità. Io me ne frego o almeno cerco di farlo finché la mia natura non chiederà riscatto e allora concederò a essa di esser moglie o mamma. Ma per adesso preferisco l'oblio dei sensi all'amore, cosi come preferisco un paio di labbra alla poesia. Io sono solo realista, infondo io sono solo una Geisha. 

Ho amato la mia infanzia, più di quanto possa aver amato un uomo. Nei mie sprazzi umani sempre più labili, vi vorrei ritornare e restare. Ebbi coscienza della mia vera identità all'incirca quando nacquero internet e i primi social network, lì capii per cosa ero nata, che esisteva un modo per tornar bambina, e non solo perché fotografando particolari di mondo sia urbano che sub urbano potevo immortalare le mie opere, ma anche perché attraverso il dialogo, alcune volte forte, scoprii che c'era una Me più vera e profonda che poteva essere lasciata andare in balia delle onde, senza perdersi, così da poter essere poi recuperata, spegnendo semplicemente il pc. Resa altissima quando i sentimenti erano zero. Poi arrivarono i cellulari, gli smartphone e io ebbi la possibilità di entrare nelle vite degli altri, di restarvi, poi in punta di piedi uscirne. Tutto ciò era fantastico. Finché non m'imbattei in colui che era peggio di me. Inizierò a parlare di lui perché fu l'unico che valesse la pena vivere e ricordare, e anche il più faticoso viaggio che io avessi fatto a ritroso, non più in punta di piedi bensì in ginocchio. L'unica volta che mi si spezzò il cuore. Poca roba ma lui la prese davvero male e questo intensificò il mio potere. Se nella vita di tutti giorni potevo sembrare insignificante, il sapere che un'anima soffrisse per me mi dava valore, mi dava vita.

Lui era un mondo pazzesco, da solo valeva tutti gli uomini che ebbi. Mi riempiva. Non avevo voglia d'altro, non mi annoiava mai. Aveva l'oro nelle mani e in quelle labbra lo scrigno ala fine dell'arcobaleno. Il piacere che mi diede, rimarrà impresso dentro me, e con me lo porterò nella tomba. C'era una differenza fra il sesso e far l'amore e con lui la scoprii pagandola a caro prezzo. Era accompagnato, annoiato, demoralizzato e tutto il calderone a seguire. Quindi ci vedevamo di rado ma tramite Twitter o Facebook e altro ci seguivamo ogni giorno. La crepa che divenne poi voragine nacque quando lui iniziò a cercare in me certezze, che neanche io avevo. Non faccio fatica ad ammettere che quest'uomo fosse, molto più intelligente di me. Ma cadde in una crisi di mezza età, fisicamente non percepibile, psicologicamente devastante. Mi tormentava con domande intime, soffocanti, tutte cose da cui io fuggivo da sempre. Non avevo risposte da dargli e non avevo intenzione di aiutarlo in quel tunnel di domande e incertezze. Volevo piuttosto che quel vuoto in cui vagava potessimo arredarlo insieme e che le sue mani non smettessero mai di prendersi cura di me. Avevamo instaurato senza dircelo un nostro modo di fare: prima la lite, la tempesta e poi la pace perfetta. Ma dopo un po' anche questo gioco venne meno e allora sfruttando le mie capacità tecnologiche iniziammo a inventarci nuovi profili fake su twitter, in questo modo ci cercavamo, ci sfuggivamo, ci amavamo.

L'avrei sposato quel pazzo criminale. Giuro che lo avrei fatto. 

Se lui avesse avuto il coraggio di sposarmi, forse io avrei superato le mie paure. Lui però non lo fece mai, io inizialmente non lo incitai, ma alla fine, il nostro sentimento, ci sfuggi dalle mani, e io, rimasi sola, senza di lui.

Mi fidanzai con un bravo ragazzo, uno di quelli che dove lo metti sta.

Lui era succube di me, era in mio potere e soddisfaceva i miei bisogni di essere amata, qualora lo richiedessi. Fiori, regali, tutto quello che mi necessitava, anche calore la notte. Ma quello lo sublimavo abbastanza anche senza di lui. Mi sentivo quasi bene, sebbene l'esigenza di tornar bambina mi tormentasse ancora, e il ricordo delle sue carezze fosse ancora esigenza nelle mie ossa, così come i dubbi e la paura mi invadessero ancora come bava di lumaca nel mio cammino la mia vita continuò, nonostante il mio nuovo fidanzato che terminato il suo lavoro di guastafeste a mio uso e consumo, nonché arma di vendetta nei confronti del mio ex, perse interesse ai miei occhi. Lo lasciai lì nel limbo dei giorni miei. Quei giorni inerti, quelli di vita vera, che spesso dimenticavo che mi appartenessero se non fosse che dovevo andare a lavorare.

La sua voce nella segreteria, quella del mio fidanzato, il mio prossimo marito. Una pianta per dono, un invito a un cinema, un ristorante. Un qualcosa, qualunque cosa che mi ricordi che lui esista… era la morte, egli riuscì a uccidere la bambina che era in me. La spense, semplicemente le chiuse gli occhi e le accese una candela profumata come cero.

Ecco forse era giunto il momento di farsi venire qualche forma di disordine alimentare o prendere una lametta e autolesionarmi l'anima.

Un giorno mi fece un discorso sulla maturità, sul nostro futuro, sul mio lavoro, sulla mia libertà di cui mi appropriavo senza il suo permesso. Lui che mi toglieva vita e respiro. Divenni una gatta e lo graffiai, come un gatto graffia la sua preda, lo mortificai come penso nessuno lo abbia mai fatto e lui invece di darmi uno schiaffo, pianse. Egli pianse. Io scesi dalla macchina e lui continuò a piangere. Le sue lacrime, non mi turbarono, ma mi emozionarono, tanto che poco dopo, rientrai in macchina, lui mi guardò sorpreso e io lo baciai con tutta la mia forza, leccai le sue lacrime con devozione. Egli me lo lasciò fare in un silenzioso perdono, presi la parte di lui che più abitavo. Quella che più meritavo di avere. Quella che speravo mi avrebbe resuscitato. Non risuscitai, anzi dentro di me crebbe un disordine continuo, una lotta infinita tra guerra e pace, contro colui che aveva scelto me, imponendosi, e non permettendo a me di scegliere lui. Accettò tutto di me, prese il bene così come il male e non si allontanò da me, mai. Io, invece sì, mi allontanai da me stessa, vagando scalza nelle lande aride del mio cuore per cercarvi un qualche forma di amore da donargli. Mi chiusi in un oblio in cui arrivai persino a credere che la vita che meritavo, che desideravo fosse davvero quella, e che lui rappresentasse la mia felicità tanto a lungo cercata e poi perduta.

Poi vidi ciò che non avrei dovuto vedere, ciò che spaccò l'oblio e mi fece tornare quella che ero. Vidi che il mio ex, scriveva a un'altra che non ero io. Dimenticandomi del tutto e prendendo aveva una strana forma di pensiero, di analisi. Notavo che trovava sostanza e senso in quelle parole che l'altra gli scriveva. Strano il loro rapporto, così strano da farmi formicolare la pelle dalla gelosia. La spiai, la attraversai senza capirla mai. Aveva più risposte che domande, risposte pensate, davvero espresse con l'intenzione di guidarlo, d'insegnarlo. L'attaccai, come le gatte attaccano e lei mi graffiò parecchio. Non pianse o fece versi, mi riattaccò e mi ritrovai messa al tappetto, da una mezza calza senza arte né parte. Riavere ciò che un tempo era stato mio fu di nuovo il mio desiderio più forte. Riaverlo era diventata una questione di vita o di morte. Non lo avrei mai lasciato nelle mani di una bacchettona saccente. Non volevo che cambiasse, non volevo che mi lasciasse da sola nel tunnel che avevamo costruito insieme. Non volevo che lo sposasse, che divenisse "miss perbene" la sua futura moglie, che il mio sogno divenisse di un'altra. Sentivo il freddo battere dentro la gola, l'invidia scendere come veleno nelle mie membra. Volevo che fosse lei a provare tutto questo e che stesse a guardarmi mentre io me lo sarei ripreso.

Bastò un semplice - avevo voglia di sentirti - per riportarlo nel mio cielo, nella mia stratosfera.

Lui mi diede di nuovo il fianco e da lì iniziai a lavorarmelo. Lo conoscevo bene, conoscevo la sua anima, le sue paure e le sue altre qualità. Dovevo solo mostrare a entrambi i difetti reciproci. Lei di difetti ne aveva molti a quanto vedevo. Povera sciocca che ci teneva a lui. Certo, quando entrai di nuovo in scena io, la sua immagine si eclissò e io divenni nuovamente la prima donna, questo mi emozionò fino a farmi bagnare nell'anima. 

Poi un giorno, che io non dimenticherò mai e che rimarrò sempre nella mia anima, dopo tanto chattare e parlare di sesso, decidemmo come ai vecchi tempi, di andare a prendere un aperitivo. Finalmente si vedeva la luce del fare, anche se rientrare nel tunnel delle sue emozioni mi preoccupava non poco paura, paura anche delle sue mani, quelle mani mi aveva fatto sanguinare ossa e organi. Non sarei di certo tornata, se solo non avessi saputo che le sue mani ora cercavano altre gambe e altre bocche. Non sarei tornata per quanto mi aveva ferita, ma l'idea di lui insieme a un'altra, questo no, mai. Lei non era meglio di me ma lui la rispettava, la trattava come una cosa preziosa, anche se non sapeva come gestirla. Lui la cercava smanioso, se lei metteva il broncio per qualche sua cattiveria. L'accontentava sempre anche se lei gli concedeva poco: chiacchiere e buone intenzioni. In più lei lo frequentava dal vivo, lo vedeva, forse a lavoro, e sembrava che lo avesse conosciuto da sempre. Questo a lui piaceva, sembrava che questo aspetto a tratti supplisse perfino il fatto che non gliela desse. Mi trovai a chiedermi se io avrei potuto contare tanto qualora non mi fossi concessa altrettanto. Se fossi riuscita. L'odiai e amai allo stesso tempo.

Non so, così.

E poi facemmo l'amore, come una volta, e più di una volta. Con quella forza, quella rabbia che solo lui possedeva. M'inebriò, estasiò ma il dubbio che dentro lui non potessi non esserci più, m'infettò il sangue.

Una donna sa, quando il suo uomo non è più suo.

Continuai a mentire a me stessa pur di averlo con me, la bimba era rinata e giocava ancora dentro me. Il mio fidanzato sapevo non mi sarebbe bastato. Anche se non lo lasciai, ebbi la tenacia di andar contro me stessa e lo tenni con me. Come ancora di salvezza da me stessa e la mia bava di lussuria.

Lui non era più lui e devo ammettere che l'altra aveva vinto perché senza di lei, non durava. Il fuoco di quella notte della riconciliazione non c'era più, era svanito. Litigammo di brutto e ci lasciammo anche senza dircelo davvero. Io tenni la mia ancora di salvezza e lui si tenne la sua, anche se dubitavo che avesse mia pensato di cambiare veramente.

Eppure giunti a quel punto, capii che lui era cambiato davvero, mentre io ero ancora ferma lì a strisciare nella mia bava e godere della mia libertà chiesta in prestito alla mia vita. Avrei voluto cambiare anch'io forse per una sentimento così.

Chissà che sapore avevano le sue lacrime? 

Così per dire. 

Chissà il suo sangue che colore avrebbe avuto accostato al mio?

Non lo so perché arrivammo a quel punto, ricominciando per poi lasciarci di nuovo, ormai c'erano le cene con il fidanzato, c'era quella vita che avrei voluto con lui ma che stavo vivendo con un altro. Tutto così sbagliato, tutto così Me. Allora sfuggii, come la classica delle amanti. Tornai nella mia patria, a casa mia, nella mia terra coperta dal perenne sole del sud. Lo lasciai nella speranza che tornando a casa mia succedesse un miracolo, portai solo dietro la mia seconda vita virtuale, ma né lui né il mio fidanzato furono inclusi.

Così danzai alle feste di paese, bevvi birra con gli amici di sempre, sopportai dignitosamente i malsani parenti. Godetti dei miei genitori, sempre troppo in ansia per me. Loro non sapevano, non dovevano sapere, di nulla che non fosse lavoro o fidanzato. Fotografai la mia terra, e qualche scena surreale, ma quella cosa davvero grande che era l'anima del sud rimase nel mio cuore, in assoluto silenzio.

Io credo alle favole, sì, credo ai sogni. Non quelli perfetti e patinati del principe che prende la sua bella e la porta al galoppo al castello. No, credo che l'anima esca dal monitor e riesca pur a distanza a trovar altre anime belle. Credo dannatamente nel virtuale, così come possono crederci coloro che sono e si sentono soli nella vita e nell'anima.

Credetemi, ho rappezzato più anime io, che un sedicente psichiatra. Ho tenuto compagnia più io a gente sola io che la tv serale. Però ho preso e anche molto. Ho fatto il bagno nelle mie emozioni, nelle mie stanze interne dove non c'era mai buio, ho lasciato perfino respirare il cuore. Io non amo i bambini. Non amo esser mamma, ma figlia, questo mi è parso di averlo espresso chiaramente. Forse perché son stata amata bene e tanto. E la mia felicità risiede tutta qua. Semplicemente tutta qua.

Io non sono di quelle persone che per poca autostima regalano via corpo ed anima. Io mi dono perché amo la sensazione sublime e carnale che mi da far sesso. Molto più far l'amore, ora lo so. Io amo il piacere in sé. Anche solo la dolcezza di una carezza mi dà piacere. Due occhi in metro che ti guardano, un sorriso che si apre all'improvviso. Una cena perfetta. Questo per me è vivere. Vivere di secondo in secondo, di fiato in fiato, senza mai chiedersi cosa avverrà dopo. Tutti i miei ricordi sono dentro me come petali di un grande pot-pourri colorato e profumato. Della gente che non mi capisce, non so che farmene, di tutte quelle che mi accusano di rubar loro i mariti, io chiederei loro: ma quando avete smesso di esser donne con i tacchi a spillo per divenire mogli in ciabatte? Ecco io faccio la differenza. Non smetterò mai di portar tacchi e di esser donna. E non rubo mariti, io il fidanzato ce l'ho e me lo tengo. Se li sorvegliassero di più prima sarebbe meglio, che lamentarsi poi. Dire le cose in faccia è poco producente, ma io sono così, sono una geisha, una accompagnatrice virtuale, forse non sarò raffinata come quelle giapponesi ma sono divertente, spensierata, calda e passionale. Io sono folle, e sono affamata di vita, di sensazioni e piaceri. Mi piace la mia vita anche se credo che alla fine io dovrò scegliere di che morte morire. Se morire sulle ali della solitaria libertà oppure accanto al mio fidanzato, come sua moglie.

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Lei è splendida. Io l'amo. Lo so che non è una semplice. Conosco pure la sua anima virtuale. Sono uno dei suoi amichetti, sotto mentite spoglie.

Forse un giorno glielo dirò oppure no, questo non lo so ancora ma so che la sposerò e farò di lei quello che lei spera di essere. Le terrò la mano e la vedrò crescere, al mio fianco, sulla mia mano. Perché il paradiso è fatto anche d'inferno divenuto gioia, e lei di questo inferno bianco ne ha molto, sepolto sotto la sua bava.

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L'ho amata per quello che era disposta a essere, ma non per quella che voleva diventare.

Di lei ricorderò sempre le dita colorate con lo smalto. La sua strana arte e il suo splendido corpo. Mi spogliò l'anima ma questo non bastò e io persi il momento eterno che dopo non ritrovai più. Né fra i miei ricordi né fra i miei sentimenti. Mi spezzò la vita ma non il cuore. Fui colpevole cento volte più di lei ma non si vendicò mai sulla mia vita vera. Era fatta in punta di piedi e aveva unghie velenose per graffiare ma non per uccidere. Eravamo troppo uguali per saperci incastrare e rimanere felici, così per sempre.

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Stanotte ho visto il mio futuro, due stelle mi parlavano guardando l'incerto e disponendo gli elementi affinché io vedessi meglio. E d'improvviso il nero non fu più bianco ma nero e il bene non fu solo ciò che potevo toccare o vedere, ma altro che io potevo sentire anche da dentro. So ciò che voglio diventare, stanotte l'ho capito. Non cambierò di certo no, ma mi fermerò e lo aspetterò lì davanti a un altare, ferma e concentrata su chi la navata per me percorrerà. Sia esso realtà oppure sogno. Ed egli dirà sì, a me, dirà sì alla sua Geisha Reale.

Questo racconto fa parte di una serie di racconti che ho scritto e che scriverò sulle donne e il loro risvolto iconico sulla civiltà. Da quella che era la loro realtà passata a quello che l'occidente ha trasformato e deviato in un personaggio se non opposto ma decisamente lontano da quello originale. Vorrei far riflettere le donne, ma possibilmente anche gli uomini, a guardare oltre gli stereotipi e ricercare la verità delle cose. Imparare e farsi attraversare dalle nuove e diverse culture per migliorare se stessi.

In questo racconto ho scritto una versione virtuale e di mia concezione di una geisha. La nostra geisha virtuale è una ragazza semplicemente fatta per intrattenere, a suo modo le persone. La stanza del the diviene virtuale e lei prende e dà senza farsi troppi problemi. Senza appiccicarsi un etichetta addosso. Consapevole però che il suo modo di essere non la porterà dove essa vorrebbe. È consapevole che ogni scelta fatta e che farà avrà delle conseguenze. 
 
Le vere geishe passate e moderne sono delle performer, delle artiste, non sicuramente delle prostitute. La vita delle geishe passata era molto dura e ferrea da quello che traspare dai libri che ho letto su di loro. Le geishe passate dovevano essere leggere e poco istruite per non irritare l'ego maschile ma non per questo dovevano per forza accettare le avance di tutti. La prima documentazione delle donne geishe risale al 1751, quando per oltre un secolo la professione era stata riservata ai soli uomini. L’appellativo si traduce dal giapponese come “persona versata nelle arti”, perché differentemente dalla valenza stereotipata, diffusa nei paesi occidentali, per cui queste donne vengono assoggettate alla prostituzione, la pratica è fin dalle sue origini legata all’intrattenimento e all’agevolazione delle occasioni sociali dell’élite nipponica. L’esercizio della professione richiede anni di dura preparazione al fine di educare le ragazze all’apprendimento di numerose nobili arti giapponesi, come il canto, le danze tradizionali, gli articolati rituali della cerimonia del tè e la padronanza dello shamisen, uno strumento musicale a tre corde, di cui la geisha deve diventare maestra assoluta. La tradizione vuole che le giovani apprendiste – o maiko – dopo lunga selezione, entrino all’età di quindici anni nelle Okiya, delle particolari case-scuola in cui le “studentesse” approfondiscono l’esercizio di arti centenarie per poter, dopo cinque anni, diventare geiko, ovvero vere e proprie geishe. Queste figure simbolo iconico della cultura giapponese vengono sottoposte a una vita di ferrea disciplina e dedizione, dove acuta intelligenza, cultura, educazione e talento artistico giocano un ruolo fondamentale. Non è difficile immaginare come al giorno d’oggi quest’antica tradizione, per quanto ancora viva e radicata all’interno della società giapponese, si stia lentamente perdendo. In tutto il Giappone sembrerebbe rimangano ormai non più di un migliaio di geishe, la maggior parte delle quali vive ed esercita nel quartiere Gion di Kyoto, cuore pulsante del Giappone tradizionale, sfruttando i favori dell’interesse turistico. Sebbene oggi sia possibile assistere ad alcune manifestazioni in cui le geishe dilettano il pubblico con ammalianti balletti, è ancora in uso la pratica per cui, per partecipare ad un banchetto tradizionale deliziandosi della loro compagnia, bisogna essere prima presentati da un cliente abituale, spendendo cifre considerevoli. Tuttavia, se ci si allontana dall’orda di visitatori delle grandi città, si scopre come esistano ancora luoghi del Giappone dove la pratica viene gelosamente preservata nella sua autenticità. A Niigata, storico polo portuale sulla costa occidentale di Honshu, la tradizione geisha conta oltre duecento anni, quando all'epoca Edo (1603-1867) la città era un importante porto sulla rotta di navigazione Kitamaebune - letteralmente, "navi dirette a nord" - che collegava Osaka a Hokkaido. Con la metropoli che alla fine del 1800, era diventata tra le parti più ricche e popolose della nazione, un fiorente hanamachi – distretto geisha o Flower Town – si sviluppò nel quartiere Furumachi per soddisfare gli innumerevoli ricchi mercanti e visitatori. In quel periodo le geishe (o geigis, in dialetto locale) arrivarono a quasi quattrocento. Nonostante anche a Niigata la tradizione geisha si stia perdendo, la città offre ancora oggi uno spaccato unico su questa pratica, custode dell’essenza di un paese straordinario. 

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audiolibro

(prossimamente vi leggerò memorie di una geisha)

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