Ti amo, tu.zero

 


Ti amo e mi alzo sulle punte, spingendo le mie braccia nell'infinito cielo quasi a volerlo toccare. Spingendo la mia schiena e levando fiato ed ossigeno ai miei polmoni in un delicato equilibrio di corpo e leggerezza. 
Volteggio, più e più volte. 
Come se questo tempo non dovesse mai finire, e il mio volteggiare altro non fosse che un prolungare la vita, di colui che essa stessa mi ha sempre negato: lui. 
Lo amo, come non gliel'ho detto mai. Come mai sono riuscita a fare. 
Come tutte le volte in cui davanti a una platea m'inchino senza raggiungere la giusta aristocratica compostezza. 
Sento lo scrosciare delle mani, il muoversi degli occhi, il lieve sfiorami delle anime ma niente in confronto ai suoi opali splendenti. 
Niente al confronto del sogno della mia mano. 
Sono sola, lo sono sempre stata ma ora che le dita dei miei piedi sanguinano stanche, mi fermo, per un attimo, esattamente il tempo necessario per riprendere forza e medicarmi nel mio silenzio. 
Non ho pensieri, non ho dolori mentre danzo. Sono un cembalo rimbombante che silenzioso trasmette la mia danza. Non posso pensare, perché se no rileggerei su quelle mie dita ferite tutta la mia pena per un corpo che non riesce a star al passo con il mio destino. 
Sono sempre stata sbagliata. L'ho sempre saputo fin dalla prima volta che sono salita sulle mie punte, ma nonostante tutto ho iniziato a danzare. Nonostante tutto l'ho amato. 
Mi cade una molletta dal mio complicato chignon, anch'essa come me, senza far rumore, mi piego per raccoglierla e concedo alla mia mente quel pensiero tanto negato alla mia anima. 
Concedo il pensiero a lui a quel tempo che è venuto e andato ma che poi mi è stato negato. 

Un... deux... trois ...

« Oh mon die alza quella gamba Kia! Sembra una zampogna!» 

À la barre ... passé développé ... arabesque … 

«Kia, non può funzionare. Sono io non sei tu…» 

Pas de deux … adagio … Port de bras … 

«Kia che ti succede? Io e tuo padre siamo preoccupati» 

«Signora, la ragazza potrebbe ma non si impegna!» 

Pas assemblé … dégagé … cambré 

Tutto così, una vita così. La mia vita, come un cinema muto che si sperde fra i colori di altri colori. Colori non tuoi. 
Un perdere coscienza di sé fino a non ricordarsi chi fossimo e cosa volessimo in partenza. Un aborto che non riconosce la propria rinascita. 

Aplomb … sissonne simplee … reverence! 

Applausi. 

Le luci si spengono. Cala il sipario. 

«Lo vedi quello là? Dice che non sono in grado di baciarti. Se tu fai finta ti faccio i compiti per un mese» disse Andrea con il suo viso perfetto. 
E io lo baciai per davvero, non solo quel giorno, ma per tutto l'anno che sarebbe venuto. Baciai lui e anche l'aria che a lui conduceva. E i compiti me li feci da sola. Li feci anche per lui. Se me lo avesse chiesto li avrei fatti per l'intera classe. 
Così non fu e le foglie caddero dagli alberi così come lui dal mio cuore. Con la campanella dell'ultimo giorno gli dissi ciao senza alcun bacio, pur sapendo che non l'avrei più rivisto. 

«Questa è mia figlia, abbia cura di lei, ne faccia una ballerina così come ci riuscì con me» 
«Vedremo, non penso abbia fisico sua figlia» 

E io divenni ballerina mio malgrado, salendo sulle punte quel mio primo giorno. Salii sulle punte e danzai per altre persone e molti anni, senza chiedermi mai il perché di tanto affanno. 
E poi lui… gemma fra le gemme, diamante splendente rovinato dal suo costante bagliore. Anima della mia anima. Rifugio e tana da difendere insieme. Era là, nascosto fra la gente che mi guardava attento. Seduto e composto che danzava con me nella sua mente. Era là che vegliava sullo svolgere della mia vita, negando il sussulto del suo cuore quando i nostri sguardi per un attimo brillavano insieme. Per lui, solo per lui iniziai a danzare sul serio. A predisporre la mia vita e il corpo affinché fossi un faro e nella musica, danzando, splendessi di luce e lui sarebbe stato orgoglioso di me. Si sarebbe accorto di me sul serio. 
Lui, da sempre abituato a ben altro stile, a ben altre cose, sarebbe stato impossibile, un'ardua impresa, inseguirlo, con questi miei piedi da ballerina. 
Eppure là, sul palco ero io, ballavo, come se non ci fossero state altre persone oltre che lui. 
Poi una sera, buia come la morte stessa, dopo uno spettacolo che non fu né migliore né peggiore di molti altri, lo vidi, era fuori dal teatro che stava fissando l'ignota via davanti a lui. Nei suoi pensieri avrei voluto esserci io. L'avrei chiamato ma non sapevo quale fosse il suo nome se non il signor Dandy della prima fila. Alzai la mano affinché mi vedesse e sebbene lui si fosse voltato, proprio quando le mie labbra pronunciavano scorci di vocali del suo nome, Dandy, il mio richiamo fu inabissato da una signora impellicciata, comparsa accanto a lui, con l'intento di porgergli la sua mano. Io rimasi lì anche quando iniziò a piovere, indossando ancora il tutù, fissai quei due che sotto l'ombrello tornavano a casa, non so se a piedi o in macchina ma insieme. Mi sentii sola come molte altre sera mi era successo, ma di una solitudine dolorosa perché avevo perso quell'unico raggio di sole nella mia tetra vita. 
Ma il destino volle altro e lo rincontrai, giorni più tardi mentre stavo uscendo dalla sala prove. Mi guardò e mi sorrise. Un sorriso aperto sincero e diretto, che non potei non amare. 
Si presentò, si chiamava Gianmaria Briga. Mi invitò a bere qualcosa ma io rifiutai, prima avevo assolutamente bisogno di sapere chi fosse la donna che era al suo fianco la sera dello spettacolo. Il coraggio di chiedere non lo ebbi eppure già sapevo che avrei fatto meglio a non sapere e prenderlo per mano direttamente quel primo giorno che il destino ci aveva fatto incontrare. 

Sono come un elefante, che posso fare, inchiodata al suolo e a questo amore. 
Non volavo mai e strisciavo a bassa quota fra i miei elementi che lui non sapeva neppure esistessero. 
Non ci fu molta attesa fra quei primi sguardi fuori spettacolo e il nostro unirci come una sola carne. Avvenne una settimana più avanti, dopo lo spettacolo mi invitò e io accettai. Cenammo in un ristorantino adiacente al teatro, era tardi e non c'era molta gente. Mi parlò della sua vita, del suo non sentirsi mai abbastanza vivo, dell'età che avanzava e della sua vita libera da nomade, e di quel suo odiare ogni rapporto fisso. Non mi parlò di lei ma il suo esserci era compresso in ogni parola che lui esprimeva. Io attendevo la sua entrata in scena, il momento esatto che lui avrebbe parlato anche di lei ma così non fu e fu così invece che lei scomparse nella mia debole testolina come se realmente lei non esistesse. 
Un sorriso lungo e sghembo il suo, ricordo che guardarlo sotto la luce fioca del locale era una meraviglia. Io dissi poco di me, non ché ci fosse molto da dire ma quel poco non erano che le solite questioni da bassa plebe, quale ero io. Non volevo rovinare l'immagine che di me si era fatto. 
Mi misi sulle punte, anche fuori dal palcoscenico e cercai di brillare per quanto potei. 
Mi concessi a lui andando contro a ciò in cui io credevo ma immaginavo che dopo tutto quanto, sarebbe stato più semplice. Lo fu quella sera e tutte le altre che vennero dopo ma mai lo fu al di fuori di quegli incontri o sul mio amato palcoscenico. 

Come una farfalla era… leggero e libero su me, seduto in prima fila che mi osservava, con quello sguardo impenetrabile di sempre. Dopo quella volta, la volta dopo dell'incontro, vi era qualcosa di più, una specie di sorriso soffuso non ben delineato, che forse era indirizzato a me. Mi fece trovare rose rosse nel mio camerino e un biglietto con scritto: grazie. 
Ma per quanto facessi non lo raggiunsi mai, mi spezzava il cuore e se ne andava sempre via da me. 
Una volta lo incontrai in piazza, era con lei, e io con i miei amici. 
Gente diversa, i miei amici. Gente piena di cicatrici nella vita e nell'anima. Gente che rideva per niente, spalancando una ghiera di denti non certo candida. Non mi salutò. Fece finta di non vedermi e passò oltre me, oltre la mia vita e oltre anche all'amore che diceva di sentire. Quella vita che diceva che gli davo, quel giorno era scomparsa, lui era solamente il signor Dandy della prima fila a teatro, con la sua compagna di nuovo viva perché mai realmente morta.
Rispettai il suo volere, perché conoscevo i margini taglienti del suo vivere ma non glielo perdonai. Fu un addio, non detto ma celato sotto gli occhi bassi e frementi di lacrime troppo a lungo taciute. Provai ancora e lo stesso a inseguirlo, ma cadevo e rimanevo così … incerta e ferita. Iniziai a mangiare meno che meno perché la sua sempre perfetta fidanzata era molto esile ed elegante e per quanto come ballerina fossi magra non lo ero abbastanza più di lei. Dormivo poco fra la vita da ballerina e gli impegni di casa. Mi rifiutavo di dormire perché facevo incubi a cui non volevo dare risposta. 
Un giorno tutta la mia vita cambiò inesorabilmente, mi ruppi il femore e non solo quello, cadendo dal palcoscenico dopo uno svenimento. I dottori diedero la colpa al sottopeso eccessivo e al prolungato stress. Io diedi la colpa a me stessa e a lui, più verosimilmente al nostro amore. Dal mio letto di ospedale gli sussurrai: «Ti prego vai via» Lui lo fece e non tornò più. Lui che aveva contato molto per me, lui che neanche allora mi poté aiutare. Non lo fece quel giorno, né in altri in futuro, non lo fece mai. 
Ma egli era in me, mi era in grembo. Dentro. Era un seme, questo mio piccolo grande amore. Era il seme che ogni donna ha in sé. Immaginato, mai coltivato, aspettato sognato, desiderato, mai arrivato.
Era il mio Dandy della prima fila,  che scriveva versi al mio balcone immaginario, virtuale. Era in uno sguardo nero come la notte e profondo come l'eterno spazio.
Era dolce quel suo sguardo. Dolce quanto il miele ma anche duro come la serrata di una diga che contiene la propria vita. 
Entrai nei suoi occhi fissandoli ai miei. Gli fui dentro, come una sparuta cellula. Gli fui dentro e nacqui come sua. Cercai il suo sangue da mischiare con il mio ma non vi potei entrare perché era già stabilito di chi fosse. La sua casata giammai poté essere la mia. M'imposi, non sapendo uscirne.
M'imposi perché volevo che il suo sangue, il suo vivere, fosse pure il mio. Avevo bisogno al quel punto che quel suo sangue di vita scorresse in me. Così feci e divenni feto con gli organi suoi e i sensi miei. Con i suoi occhi vidi il mondo. Con le sue mani toccai le mie medesime stanze interne. Come se il mio corpo fosse il suo. 
Vagando nella sua mente feci miei i suoi ricordi. Li vissi tutti. Uno per uno. Rabbrividendo oppure gioendo per lui. Non potei non amare lo sguardo di suo padre che si ridisegnava in lui. Oppure il dolce nettare di sua madre mentre lo nutriva e lo cullava. Ero in lui e lo aspettavo. Ormai ero nata ed ero tutta sulla sua mano. 
Ed ero lì, tutta intera sul palmo della sua mano. Io aspettavo non sapendo far altro.
Aspettavo che ritornasse dal percorrere la sua anima e facendo sosta prendesse nota che io c'ero e lo amavo. Volevo prendermi cura del suo riposo. Volevo prendermi cura di quel suo tratto di vita che sapevo non mi apparteneva ma io volevo fosse mio. Volevo esserci ogni suo mattino per augurargli forza e coraggio.
Volevo esserci negli spazi stretti della sua giornata. Per dargli sollievo come fossi un massaggio sulle spalle indolenzite. Volevo esserci la sera per dirgli: mangia, imporgli quel che io non so impormi. Volevo distendermi con lui sull'altro cuscino e farlo dormire e dirgli che domani c'era ancora vita e se non gli bastava la sua c'era pure la mia. Volevo e l'ho fatto con determinazione e incoscienza ho lasciato che la mia vita fosse pure la sua.
C'era quell'incavo fra il collo e le spalle che pensavo fosse di diritto mio. Pensavo che un giorno ci avrei appoggiato la testa, mi sarei nascosta e per una volta non avrei potuto aver paura. Qualcuno per una volta avrebbe combattuto per me. C'era anche quel suo sguardo che pensavo di abitare. Avevo visto che luce emanava ed era per questo che vi ero voluta entrare. C'era quella sua camminata, quel suo porsi, quel suo meraviglioso modo di sorridere o parlare che risvegliavano in me le stagioni ed ogni mio fremito di vita, ora era il suo. Ogni mio gemito inespresso ora era opera sua. Pensavo che quelle belle mani da pianista fossero la continuazione delle mie. Pensavo che non sarei mai stata più sola e bistrattata ora che c'era anche lui.
Pensavo ecco tutto, ma non era così. Vidi quello che non avrei voluto vedere e rimasi immobile con il respiro in gola come a voler svenire ad ogni cambio di scena. Vidi abbracci depositarsi in altre spalle. Vidi sorrisi rispondere ad altri sorrisi. Vidi vita cercare altra vita. Ma mai in nessun caso per me. Mai niente per me al di fuori dal letto o sul palco. Bugie cadevano come pioggia sull'asfalto. Parole vuote sferzavano il viso come vento di tempesta. L'oblio circondava ogni mio sbaglio, ogni mio cadere. Ogni sua indifferenza, ogni suo scansarsi da me, erano passi indietro per una mia malcelata fase anale dell'anima. Tutto questo non lo potevo sopportare più.
Feci quello che avrei dovuto fare quel mio primo giorno d'amor per lui. Mi suicidai in lui. Abortii il mio essere e mi lasciai agonizzante. Affinché il mio amore fisico per lui morisse. Così come il mio amore platonico subisse una retrocessione al nulla eterno che sempre gli era appartenuto.
Volevo salvargli la vita e per poterlo fare dovevo dare in cambio la mia.
Come anime dilette, gemelle, elettive e alchemiche. Come anime e basta.

E dopo ciò mi rialzai sulle mie gambe da sola, dopo una convalescenza lunga, tediosa e triste in cui riflettei molto, salii sulle punte, e iniziai a ballare di nuovo. Questa volta per me stessa. Finalmente e semplicemente per me stessa. Come quando ero ragazzina, come quando capì che l'unico modo di volare era quello di stare sulle punte e ascoltare la mia anima cantare.

Vita da ballerina passata (dal sito Linkiesta)

Danza e bordello: la vita sordida delle ballerine ritratte da Degas

Le apparenze non ingannino: la vita della danzatrice di fine ’800 era dura e ingiusta, fatta di fatica fisica e, soprattutto, di sfruttamento sessuale

Non fatevi ingannare dalla leggiadria delle ballerine in volo. Non accontentatevi della malinconia dei colori o della grazia dei movimenti: superate la prima apparenza di un mondo fatato e distante e guardate. Dietro ai quadri caldi del pittore francese Edgar Degas c’era una realtà fatta di squallore e sfruttamento, in un’epoca in cui le ballerine non si limitavano a danzare, ma erano anche prostitute.

Verso la fine dell’800 il balletto conobbe una fase di flessione. Alla stregua di uno spettacolo di cabaret, era diventato un semplice intrattenimento piazzato tra un atto e l’altro di un’opera, dedicato soprattutto al pubblico maschile che, grazie alle mise leggere e ai tutù, poteva lanciare qualche sbirciatina alle gambe delle ballerine.

C’era però chi non si fermava lì. Nella vita di una ballerina dell’epoca la prostituzione era parte integrante della sua attività. Un fatto così normale e accettato che il Palais Garnier, grande teatro dell’opera di Parigi, era stato progettato tenendo a mente anche questo: dietro al palcoscenico era stata creata una grande sala di appuntamenti. Uno spazio in cui le ragazze potevano ritrovarsi per scaldarsi prima di uno spettacolo, ma anche dove i signori più interessati (spesso iscritti a un club dell’opera) potevano incontrarle, socializzare con loro e fare proposte indecenti.

Spesso chi entrava in un corpo di ballo proveniva dagli strati meno abbienti della società. Era un lavoro con cui contribuiva a sostenere la famiglia. Per questa ragione intrattenere buoni rapporti con gli abonné del club, uomini ricchi e spesso potenti, poteva portare a rapidi avanzamenti di carriera, ottenere parti migliori, lezioni di ballo più sofisticate e, perché no, anche a un appartamento comodo e pulito. Era, come si scrive qui, una “cultura da bordello”: pervasiva, onnipresente e valida per tutte. Anche le ballerine più brave e famose che non avevano fatto ricorso a questi mezzi, erano comunque sospettate di averlo fatto.

È questo, insomma, lo spirito che viene catturato da Eduard Degas nei suoi dipinti. Sono rari i casi in cui, tra i suoi 1.500 dipinti, appaiono ballerine in scena. L’artista preferì concentrarsi su ciò che avveniva sul retro, sui momenti del riscaldamento, sulle prove, sugli incontri – in cui figure scure e sinistre appaiono sullo sfondo di scene di ballo e di rilassamento. Ma la sua arte, che pure considerava “realista” e non “impressionista”, non voleva essere una denuncia. Tutt’altro: era solo una questione estetica. “Tutti mi definiscono pittore di ballerine”, diceva, “ma il mio vero interesse è il loro movimento, e i loro vestiti”.

Nonostante Degas – era noto – non avesse mai accettato le avance delle ballerine, approfittò spesso della loro posizione di debolezza per costringerle a sessioni di posa estenuanti in posizioni contorte (“Forse le ho trattate come animali troppo spesso”, dirà), in cui le definiva “scimmiette” e le costringeva “a snodare le loro giunture”. Non era una bella persona, insomma. Ma rimane un grande artista che racconta, anche senza volerlo, un mondo ingiusto e crudele

Vita da ballerina odierna

«Mi sento amareggiata perché non sono stata capita e perché le mie parole sono state decontestualizzate: non intendevano offendere nessuno. Ho solo raccontato la mia esperienza personale, che è simile a quella di molte ballerine. Non avrei mai pensato che potesse essere visto il male in questo, al contrario ho sempre creduto che informare e informarsi sia l’inizio di una guarigione importante». Eccola, Mariafrancesca Garritano in arte Marygarret.

Fino a pochi giorni era ballerina solista alla Scala di Milano, assunta a tempo indeterminato. Poi, all’improvviso, è arrivato il licenziamento “per giusta causa” con l’accusa di «lesione dell’immagine del Teatro e della sua Scuola di Ballo», spiega un comunicato del Piermarini. La lesione deriva da «dichiarazioni pubbliche da lei rilasciate ripetutamente in un ampio arco di tempo», a loro volta riguardanti il rischio anoressia che infesta il mondo della danza. Doveroso fare un piccolo passo indietro: nel 2010 Mariafrancesca ha pubblicato un libro, La verità, vi prego, sulla danza!, disegnando un quadro fatto di diete assurde (un frutto e uno yogurt in 24 ore), cicli mestruali scomparsi, «storie di corruzione, minacce e compromessi per un posto sul palco», finte immagini che occultano profondi disagi.

Mariafrancesca Garritano ha messo in piazza il proprio vissuto spinta dal «desiderio di riflettere su molti aspetti della danza e della vita del ballerino, che spesso non sono affrontati come dovrebbero e sui quali non sempre ci si sofferma, forse perché incantati dall’aspetto esteriore di questo mondo». Non sono state quelle pagine a provocare il licenziamento. No, la terribile punizione è scaturita da interviste successive, in particolare quella all’Observer (fatta lo scorso dicembre), in cui la 33enne calabrese ha rafforzato l’allarme. Sul giornale in questione è apparso il titolo “una danzatrice della Scala su cinque soffre di disturbi alimentari”. D’effetto, sì, ma lei assicura che non corrisponde con esattezza a una sua frase. Insomma, la parola “Scala” non sarebbe stata collocata proprio là. Il passaparola ha comunque varcato i confini. I datori di lavoro di Mariafrancesca l’hanno presa malissimo, ritenendo che «il necessario rapporto fiduciario» fosse ormai spezzato e decidendo di allontanarla. Così la solista, che nell’arco della carriera ha collezionato successi e prestigiosi traguardi a livello internazionale, si è ritrovata senza posto.

Si aspettava delle reazioni, «perché non sempre è facile comprendere quanto articolato sia il discorso sui disturbi alimentari e a quali conseguenze possano portare»; però non immaginava che si arrivasse a tanto. La questione è affidata agli avvocati, lei non si ferma: «Sono socio onorario dell’associazione Mi nutro di vita, che fa prevenzione e informazione sui disturbi alimentari. Il 15 marzo a Genova ci sarà la prima Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla, dedicata appunto ai disturbi alimentari». Intanto piovono attestati di solidarietà: «È incredibile, mi rendo conto ogni giorno di più che questa solidarietà è sincera perché spontanea. Ed è per tutte queste persone che vado avanti».

Fra coloro che le si stringono intorno, però, il numero delle colleghe è piuttosto ridotto. Così come è ridotto il numero di ballerine che confermano la sua denuncia sociale. Alla Scala, la negazione è imperante. E se si prova ad allargare il raggio d’azione, cercando testimonianze, il risultato non cambia: «Ti sembrerà strano – giura Francesca, sulle punte da molti anni – ma non ho mai visto nessuna ballerina con questi problemi, neanche quando studiavo all’Accademia nazionale (a Roma, ndr). Forse succede a chi lavora ad altissimi livelli, nei teatri…». «Non voglio parlare di queste cose», tronca Lucia, oggi insegnante in Calabria. Ma il suo nervosismo lascia perplessi.

Le difese, invece, si abbassano fra chi non deve più andare in scena. Allora la Garritano smette di essere solo una che cerca pubblicità o che ha generalizzato un problema personale. Allora la Garritano diventa una voce da avvalorare: «Quello della danza classica è un universo complesso, che può scatenare brutti meccanismi mentali», dice Benedicta Boccoli, showgirl e attrice teatrale. “Io ho iniziato a studiare a sette anni e ho ballato a lungo. La mia struttura mi ha aiutato, non ho mai avuto forme eccessive. Le ballerine devono essere esili, leggere, e questo è innegabile. Spesso, però, invece di plasmare il fisico con un’alimentazione corretta, tendono a perdere l’equilibrio. È successo anche a me: facevo colazione, poi nel resto della giornata mandavo giù una mela e uno yogurt. Oppure prendevo due compresse di vitamine a pranzo e una fettina di carne con insalata a cena. E mi allenavo anche per otto ore di fila. Tutto questo è pericolosissimo, mi sono sentita male più di una volta. Le ballerine dovrebbero essere seguite da staff di specialisti, proprio come avviene nel calcio».

«Se non ti spiace, vorrei evitare di dire il mio nome», esordisce un’ex allieva della scuola del Balletto di Roma che chiameremo Silvia. Oggi fa un mestiere completamente diverso, «ma mi sono diplomata lì e poi ho lavorato come assistente per diversi anni». Concorda sul fatto che la ballerina ha l’obbligo di mantenere una «determinata connotazione fisica e articolare. Insomma, c’è una magrezza standard da rispettare»; ma questo dictat pesa molto in un’età delicata come quella dell’adolescenza, e come se non bastasse «l’ambiente della danza è popolato da primedonne. Anche nelle scuole, la vocazione principale è quella di emergere. Diventare la più brava, la preferita dall’insegnante, essere perfetta. La competizione è altissima, inizia negli spogliatoi e crea una pressione continua». Facile, dunque, «che si costruisca un rapporto deviato col cibo. Perché ti dicono che devi essere magra, sì, ma nessuno t’insegna a mangiare». Poi Silvia ammette: «Mi sono ritrovata in tutto ciò che ha detto Mariafrancesca. Nonostante sia sempre stata una persona tranquilla e gioiosa, anche io ho rischiato molto. Sono arrivata a non mangiare e non bere per due giorni di fila, era l’adrenalina a tenermi in piedi. Purtroppo, simili comportamenti ti restano addosso anche quando smetti di ballare. È solo da un paio d’anni che ho imparato ad alimentarmi nel modo giusto».

Elena Delmastro, ballerina e insegnante di danza classica accademica diplomata al Teatro alla Scala di Milano e alla Royal Academy of Dance di Londra, ha calcato le scene di molti teatri italiani e dirige il Centro Danza Royal di Torino. «Personalmente, per fortuna, mi sono sempre nutrita con serenità. Però non posso negare l’esistenza di questo problema nella danza, anche se credo che finisca nel tunnel chi è predisposto: Ragazzine fragili, borderline». Secondo Elena, dunque, non è giusto fare l’equazione danza=anoressia; la danza, tuttavia, può essere la miccia che scatena un disagio già latente. Ed è vero che, a volte, anche gli insegnanti hanno una parte di responsabilità: «Sono trascorsi molti anni, ma mi è capitato di vedere colleghe di corso costrette a salire ogni giorno sulla bilancia, davanti alle altre. Spero che queste cose non accadano più». Forse ora non si arriva a tanto, ma viene da pensare che il confine fra passione e ossessione, spesso, diventi troppo sottile.

Film completo

Ballando sul cristallo


Colonna sonora 


Amo Čajkovskij ma scrivendo questo racconto avevo in mente L'acrobata di Zarillo.
 
C'è un mare in silenzio quassù e rete non ho
Ma cresce il tamburo nel blu e mi lancerò
E fermano il fiato per me ma li stupirò
Nel cerchio che poi nel vuoto farò
La case, la gente, le vie lontane laggiù
Gli errori degli uomini qui non contano più
La soglia del male che è in noi io supererò
E fino in platea ti raggiungerò
Amore che devo inventare
Io come i poeti e gli uccelli qui in terra equilibrio non ho
Ma il cuore mi spinge a rischiare
E su questo filo attaccato alla luna ogni sera vivrò
Morendo davanti ai tuoi occhi e al tuo seno mi libererò
Nel volo che so
Accarezzo il tuo grano e poi su nell'immensità
Qualunque promessa sarà più vera da qua
Per lunghi secondi finché dimenticherò
Che un uomo quassù restare non può
Amore che devo inventare
Io come i bambini e gli acrobati a terra un mio senso non ho
Ma il cuore mi spinge a rischiare
Su questo trapezio che passa ogni sera e non torna mai più
E che tenerezza afferrarti le mani, portarti nel blu
Non scendere più
Perdonami questa bugia più grande di noi
Ma come vorrei
Portarti lassù
Non scendere più.

Fonte: LyricFind
Compositori: Michele Zarrillo / Vincenzo Incenzo


Audiolibro




Audiopoesia

Degas l'avrebbe ritratta così
come un fiore  accarezzato dal vento 
col gambo piegato 
che con naturale aristocratico garbo 
ritorna a guardare il sole. 

Io che amo le ballerine 
sono soddisfatta che lei ne sia l'essenza. 
Ho creato la mia ballerina 
che non danza sulle punte ma muove ritmicamente la sua mente 
assieme alla sua anima  
che soave muove il resto. 
Ho concepito la grazia della Danza. 
Ho concepito la mia Giulietta.  

Commenti

Post più popolari